mercoledì 1 maggio 2013

un vestito a cipolla




L'ho cercata a lungo.

Cercavo una parola, un istante o forse un'immagine di vita che potesse rendere nitidamente l'idea, che avesse le stesse sensazioni a disegnarle la pelle.

Ho cominciato a pensarci da quando le 50 sfumature di mamma mi hanno scritto per propormi questa iniziativa
Che mi è piaciuta subito.

Perché io me li ricordo quei primi mesi in cui la frase che rimbalzava nella mia testa e finiva fin dentro lo stomaco era:
"però non me l'aveva detto nessuno quanto fosse difficile." 

Ancora adesso, dopo quasi 14 mesi, mica è andato via del tutto quel pensiero. 

Perché è profondamente vero. 
Perché ti terrorizzano con i racconti del parto, magari anche dell'insonnia e delle poppate.

Ma della vita, quella reale, quella di quando incontri gli occhi di un altro essere umano che ha bisogno di te, quella no. 
Nessuno me l'aveva detto. 
Nessuno mi aveva parlato di un concetto tanto semplice e allo stesso tempo paralizzante come quello di quotidianità.

E' vero, c'è l'oggi, l'oggi in cui ti ho conosciuta, ti ho vista per la prima volta e il mondo mi sembra un posto perfetto, il posto giusto. 

Ma poi c'è anche domani. E dopodomani. E ancora.

E, no, non puoi chiedere una pausa. 
Anche se sei stanca, anche se il seno ti sanguina.

Proprio in quei giorni ti accorgi, forse per la prima volta, che la tua vita è cambiata. Di più, la tua vita non sarà mai più come prima. 

E non è un concetto facile da digerire, no. 
Per quanto sia meraviglioso il soggetto che mette in atto questo cambiamento. 

E' la quotidianità, appunto, che per prima ti fa assaggiare questo nuovo sapore di ineluttabilità. 
Poi, subito dopo, la solitudine. E questo, davvero, una non se l'aspetta.

Trascorri le giornate sempre a stretto contatto con un altro essere umano, come ci si può sentire soli? 
La solitudine è l'ultima cosa a cui si pensa. 
Ma è la prima ad avere la forza di spingerti le lacrime giù dagli occhi.

La solitudine, spesso, è soffocante come quelle giornate afose d'estate in cui sei chiusa in casa e il caldo è davvero opprimente. 
Ma le finestre non le apri, perché pensi che lascerebbero entrare solo altro calore.

La solitudine è quel momento in cui hai paura che non finirà mai.

E, invece, una mattina ti alzi e c'è il fresco a baciarti la fronte e ti volti e le finestre sono spalancate e fuori il cielo è terso e leggero.

Quando hai aperto le finestre? Quando hai scoperto che fuori non faceva poi così caldo? Nemmeno te lo ricordi.

Perché non esiste un momento preciso.

Quella finestra aperta è già in ogni momento di solitudine e pianti e speranza che scorre via insieme alle lacrime. 

Devi solo accorgertene. Nell'istante esatto in cui accade, già non ricordi più quanto caldo facesse. Quanto sudore ti appiccicasse capelli e pensieri.

Me ne sono resa conto non molto tempo fa, quando una ragazza conosciuta da poco, con una bimba piccola piccola e un sorriso grande, un giorno è crollata davanti a me quasi urlando la fatica, come se non l'avesse mai urlata a nessuno, nemmeno a se stessa. 
Vergognandosi di quella fatica.

Già. Perché a complicare il tutto c'è proprio la vergogna.

Come se uno dovesse vergognarsi di faticare nel far crescere, nutrire, amare, curare, pulire un bambino. 
In fondo, cosa vuoi che sia.

"Come fai tu?" -mi ha chiesto- "sembri riuscirci con facilità."

Ma chi, io? Io? 
Io che mi sono lamentata oltre il lamentabile e ancora lo faccio? 
Io che ho frignato più di mia figlia?

Allora mi sono accorta che le finestre dietro di me erano spalancate.
Allora mi sono accorta che i luoghi comuni sulla maternità non fanno altro che cementarci dentro la nostra solitudine e senso di inadeguatezza.

Allora le ho raccontato tutto, senza fare dell'inutile terrorismo, solo parlandole di me, della mia quotidianità, facendole capire che il mio solo vantaggio sono la manciata di mesi che mia figlia ha più della sua. 
Solo questo.

Mentre ritornavo a casa, dopo quell'incontro, per le strade ho trovato l'immagine che cercavo. 
Un'immagine che fosse simile alla maternità, o almeno all'inizio della maternità, perché per ora ho vissuto solo questo.

Erano i primi di Aprile. 
Giorni in cui, secondo il calendario, la primavera dovrebbe essere arrivata già da un po'. Ma il cielo continua a pensarla diversamente e a vestirsi di grigio.

Quel giorno, in particolare, era esattamente uno di quelli in cui, dopo tanto grigio, un timido sole tentava di perorare la sua causa a colpi di giallo.
Quelle giornate in cui ti affacci alla finestra e appena vedi l'ombra di giallo decidi che è arrivata l'estate, tiri fuori la canottiera più colorata dall'armadio e ti fiondi fuori.

Oppure non ti fidi affatto, perché lo sai già che il tempo è un essere infido e ingannevole e allora sotto il giubbotto metti anche un maglione. 
Giusto per stare sul sicuro. Per non farti prendere alla sprovvista.

Ed ecco che le strade assumono quell'aria un po' folle di persone vestite d'estate ed altre che sembrano pronte alla traversata della Siberia. 
Tutte insieme, una accanto all'altra. 

Ma l'unica cosa veramente certa è che, in un momento qualsiasi della giornata, chi è vestito d'inverno patirà il caldo e chi indossa una magliettina avrà un freddo bestiale. 

Proprio così sono i primi tempi da genitore: 
una giornata d'Aprile in cui spunta il sole dopo tanto freddo e pioggia. 
La città colorata di gente vestita nei modi più estremi.
Una pioggia improvvisa e tu hai la canottiera. 
40 gradi l'istante successivo e tu hai il maglione infeltrito. 

E questo, visto da fuori, fa sorridere. 
Perché tutti quei colori sono disorientanti, ma belli. 
Perché tutti, ad un certo punto, si sentiranno inadeguati. 
Ma durante la pioggia qualcuno sorriderà dentro il cappotto. 
E, accarezzato dal calore improvviso, qualcun altro guarderà soddisfatto la propria canottiera.

Infine, presto o tardi, capirai che la cosa migliore è vestirsi a cipolla.

La cosa migliore è sempre vestirsi a cipolla.
Forse per questo ci si ritrova, a volte inaspettatamente, con le lacrime agli occhi. (Ok, pessima battuta. Pessima.)

Così, capiterà che con addosso magliettina e magliettona ti volterai a guardare tuo figlio, in un giorno di pioggia in cui la nostalgia del sole comincia davvero a farsi insopportabile. 

E lo troverai con un costume da bagno in testa e gli occhi orgogliosi infilati dentro i tuoi.

E capirai che la tua estate è già lì, proprio accanto a te.






domenica 7 aprile 2013

pensieri annodati che diventano azzurri


Mi hai ingannata.

Eri sorridente e perfettamente a tuo agio mentre eravamo insieme, sedute su quel pavimento.

Per tre giorni sono stata lì con te ed era come se non ci fossi.
Una presenza inutile in mezzo a occhi grandi e limpidi, a risate, a sete di esplorare, conoscere, crescere.

Mi dicevo: 
"meglio così. Certo, un minimo di interesse nei miei confronti potrebbe anche mostrarlo, ogni tanto. Giusto perché gli altri capiscano che in effetti ci conosciamo e non sono una totale estranea." 

Invece ero proprio invisibile. 
Ed anche quando ho finto di andare via, salutandoti con il coraggio che mi hanno obbligata ad avere, tu comunque non hai battuto ciglio.

"Meglio così", mi ripetevo, "meglio così. Significa che sta bene. A me basta questo."

Ed ecco perché mi sentivo forte, ecco perché l'ansia era andata a farsi una dormita per riprendersi dal suo estenuante lavoro. 

Non avevo più timori mentre tornavamo lì insieme, non mi tremava più il cuore al pensiero che stavolta sarei andata via davvero, anche se solo per poche ore.

Ti ho fatta avvicinare agli altri e tu hai riso con quella risata che si posa sulla pelle e la fa brillare.
Ed io ho sentito anche l'ultima piuma nera di paura volare via, andare lontano.

Ti ho guardata per un po' mentre ti prodigavi in balletti per attirare l'attenzione e salutavi tutti con entrambe le mani, scuotendole forte, così forte da farle sembrare un piccolo paio d'ali colorate.

Mi sono avvicinata e ti ho salutata con tutta la sicurezza della tua serenità.

Ed è stato allora.

Mentre mi giravo per andare via, quando ormai mancava poco alla porta da cui sarei uscita.

In quel momento.

Tu mi hai piantato addosso quello sguardo, come un colpo dato alle spalle di un avversario che si sta allontanando con la vittoria a danzargli sulla faccia.

Quello sguardo che non capiva, che non voleva.

E sei esplosa in un pianto acuto. Alla Tarzan nella foresta, proprio.

Devi aver pensato che il tutto non fosse abbastanza d'effetto, perché ad un certo punto hai aggiunto il colpo di grazia, liberando a gran voce la parola "mamma" interrotta da due-tre singhiozzi modalità cucciolo abbandonato.

Non so se sono crollata in quel momento oppure mentre l'educatrice del nido ti ha preso in braccio e mi ha fatto segno di andare via velocemente.

So solo che mi sono ritrovata in macchina a piangere con singhiozzi più forti dei tuoi. 
So solo che il tuo sguardo mi è rimasto impigliato nella pancia tutta la mattina.

Mi sento piccola, più piccola di te persino.
Anche se ho telefonato all'educatrice per avere tue notizie e mi ha riferito che hai solo atteso che io uscissi del tutto per ricominciare a sghignazzartela con gli altri gnometti lì intorno.

E' solo che sono finita in un vortice di pensieri in cui il più fastidioso è quello che non mi fa più capire se sto facendo la cosa giusta. 
E, soprattutto, cosa effettivamente sia giusto.

Ma dato che quel vortice di pensieri confusi e ingarbugliati ancora non sono riuscita a pettinarlo, oggi ho deciso di non pensare. 

Di uscire fuori con te a cercare il sole addormentato fra i fili d'erba.

Di seguire il tuo piccolo dito che sa indicare le cose più belle, per non dimenticarle.




Di salire su un'altalena per far scivolare via i pensieri dai capelli e vederli diventare azzurri, come una giornata insieme. Una giornata qualsiasi.



mercoledì 27 marzo 2013

quotidianità - seconda parte.


"Pronto? Buongiorno, siamo il Supermercato! 
Volevamo sapere quali sono i suoi rapporti con noi."

"Rapporti? Uhm...vediamo...ah, sì! Mi avete lasciata a casa appena vi ho comunicato di essere incinta!"

"No, no, questo lo sappiamo! (Ah, ne sono felice!
Volevamo appunto chiederle quanti mesi ha la sua bambina."

"Un anno, appena compiuto."
(Cioè, mi state chiamando dopo quasi due anni per sapere come sta mia figlia? La prossima domanda sarà riguardo la marca di pannolini che uso?)

"Fantastico! E lei sta lavorando?"

"No."

"Ah, e sarebbe disponibile a tornare a lavorare per noi?"

"Non ho capito."

"Le stiamo offrendo un lavoro."

"Non ho capito."

"Vorremmo sapere se sarebbe disposta a cominciare fra una settimana."

"Non ho capito."

"Perfetto! Allora la aspettiamo oggi pomeriggio per firmare il contratto!"



Io, lo giuro, sono rimasta con espressione ebete per parecchie ore, forse anche giorni. 
Probabilmente ancora adesso un pesce palla si porta dietro una faccia più intelligente della mia.
No, davvero. 
Ancora non mi sembra vero che possano avermi chiamata per lavorare, senza che io abbia chiesto nulla. 
Solo sperato. Solo pensato. 
Pensato che era il momento di ricominciare la semina di curricula, perché la situazione stava diventando disperata.
Solo pensato, sapendo che forse, probabilmente, magari, e comunque poco verosimilmente, mi avrebbe risposto qualcuno fra mesi.

E, invece, mi sono ritrovata così. 
Un lavoro che ho odiato e anche molto poco pagato, ma UN LAVORO! 
Oddio, un lavoro!
Potrebbe essere qualsiasi lavoro in questo momento, che importa? 
Era quello di cui avevamo bisogno, ma bisogno veramente. 
Forse per questo mi sembra il lavoro più meraviglioso di tutti i tempi.
Vorrei abbracciarlo, se solo potessi. 
Vorrei avere braccia abbastanza lunghe da circondare quelle vecchie pareti grigie e fredde da Supermercato e stringerlo, stringerlo forte. 

Mi sono ritrovata così. 
La leggerezza luminosa di un sospiro di sollievo. 
La gratitudine inaspettata che fiorisce dentro come un germoglio sopravvissuto all'inverno.
Una figlia. Nessuna macchina. Sette giorni di tempo. Ah.

Il tempo è scivolato via, veloce. 
Senza neanche riuscire a riempire per bene le giornate, ma sfiorandole soltanto.

E così, si è già compiuta la mia prima settimana lavorativa.
Una settimana che mi ha ribattezzata come figura retorica. 
L'ossimoro, più precisamente.

Perché è incredibile sentire l'antitesi di sensazioni che si aggroviglia dentro e ti scinde in due.

Due metà perfette.

Una metà in cui vive la felicità di lavorare ed anche di ritrovare un pezzetto di se stessi. 
Quello che ritorna nel mondo degli adulti, che può parlare e sentirsi rispondere da qualcuno che articola suoni più elaborati di un "ga!" 

Nell'altra metà abita, invece, un qualcosa a cui nemmeno so dare un nome. Qualcosa che è la separazione da mia figlia dopo dodici mesi di simbiosi. 
Una separazione minima, è vero, ma che ugualmente mi intreccia la pancia al cuore quando, al mattino, la lascio a qualcuno che non sono io. 
E mi ritrovo con le lacrime a gonfiarmi gli occhi lungo il tragitto, senza neanche capire bene il perché.

A supervisionare il tutto, per assicurarsi di mantenere la giusta armonia fra le due parti, c'è -neanche a dirlo- la cara, vecchia Ansia. 
In quanto fidata amica, non poteva mancare nel tenermi le mani per assicurarsi di farmele tremare!

Nel tentativo di farle comprendere che la sua presenza non è gradita, non potendo ricorrere a psicofarmaci o sedativi in dose massiccia, sto usando due pozioni magiche. 
(Questo è un indicatore abbastanza chiaro del fatto che forse, e dico forse, la mia stabilità mentale ha deciso di trasferirsi altrove. Lontano, molto lontano).

La prima, è una tisana:







La seconda, è proprio un filtro magico:







Si chiama proprio così. Dopo la pioggia.

Perché ti lascia addosso quel ricordo di piedi freddi che si abbracciano sotto le coperte, mentre fuori la tempesta canta.

Ti lascia addosso quel colore di prato che, lentamente, apre un occhio. 
Uno soltanto. Tanto basta per accertarsi che sia tutto finito. 

Ti lascia addosso l'odore di cielo fresco, che ti è appena piovuto dentro.

E, allora, chi se lo ricorda più l'odore dell'ansia?

giovedì 21 marzo 2013

quotidianità - prima parte.


Era l'estate del 2011, ed io da più di un anno lavoravo come una disperata per riuscire a pagare la retta dell'università più affitto e spese insieme a Lui.

Durante il pomeriggio studiavo, 
dalle nove di sera fino all'una del mattino facevo la barista dentro un cinema, dalla mattina alle otto fino alle sedici ero una cassiera in un supermercato.

Un supermercato che insieme detestavo e ringraziavo, come si fa con un insegnante severo che ti spreme fino alle lacrime più amare, ma nel frattempo ti insegna la vita.

Lo odiavo, perché lì dentro mi sfruttavano ai massimi livelli, approfittando della mia totale e disarmante incapacità di dire "no". 
E non per bontà, ma per semplice debolezza. E insicurezza. 
Perché sono posseduta da questo germe che mi mangia pezzetti di cuore di fronte al rifiuto. 
Quindi io, di rifiutarmi, sono incapace. 
Anche quando sarebbe veramente necessario. 
Anche quando ci va di mezzo il rispetto per me stessa. 

Perciò, da commessa part-time ero diventata quella che "puoi-chiamarla-a-qualsiasi-ora-del-giorno-e-della-notte-e-in-un-attimo-sarà-qui".

Risultato: lavoravo più di un full-time e, a volte, iniziavo alle sei del mattino con nuova mansione di carico e scarico merci. 
Ed io che a fare queste cose mi ero sempre immaginata un possente e nerboruto signore, munito di canottiera con riccioli di peli annessi.

Nonostante questo, ero grata a quel supermercato. 
Perché, grazie a lui, stavo realizzando i miei sogni.

Riuscivo a pagare l'università, la prima vera cosa che facevo per me e solo per me. 
Per lungo tempo avevo pensato che non me la sarei mai potuta permettere. 
Invece, con quel pizzico di incoscienza che certe volte è l'ingrediente segreto per un'ottima riuscita, sono uscita di casa per cercare uno, due, dieci lavori. Avrei fatto tutto il necessario per riuscire ad ottenere ciò che desideravo.
Sono andata ad acchiappare la mia indipendenza con le mani, strappandole i capelli, quasi. 
E trovati i lavori, potevo finalmente studiare, come ho sempre amato fare.

Ma potevo anche dividere l'affitto con il mio amore e stendermi su un pavimento ancora vuoto con i vestiti sporchi di pittura, a riempirci gli occhi del verde appena steso sulle pareti, a ridere per una casa piccola così, ma con una stanza di prato ed una di mare. 
Ci sembrava di aver catturato l'infinito.

Potevo usare una macchinina un po' catorcio e non di mia proprietà, ma amata come si ama il vento tiepido che entra dentro un finestrino abbassato e la musica che si abbandona alle sue braccia trasparenti, trafitta di passione.

Potevo avere tutto questo, ed era grazie a quel cinema, ma soprattutto a quell'odiato supermercato.

Per questi motivi, arrivavo a casa stanca, stanchissima, ma lo ringraziavo ogni giorno. 

Poi, a luglio di quello stesso anno, ho scoperto di essere incinta.

In un colpo solo, ho perso i miei lavori (drammi della precarietà), la macchina, l'indipendenza.

Ci ho messo un po' a riprendermi, perché l'egoismo umano è tenace e lotta per la sopravvivenza.
Perché era già successo più di una volta, per altri motivi, che la mia vita cambiasse in modo radicale da un giorno all'altro.

Come fossi un personaggio di carta che, a intervalli quasi regolari, si ritrova improvvisamente a respirare fra le righe di un libro che non è più quello in cui si è addormentato la sera prima.

Ma poi, inaspettatamente, ho scoperto un altro mondo, al quale prima nemmeno pensavo, perché mi sembrava così lontano.

Un mondo fatto di un amore così intenso che non mi sta nel cuore, che straripa e dilaga nelle braccia, nelle mani. 
Nei piedi, gli occhi, i capelli...il mio corpo è amore per lei.

Ed io davvero prima non immaginavo neanche che gli esseri umani potessero amare in questo modo assoluto. 

Allora ho capito che questo è il libro giusto. 
Che lei, Lui ed io siamo la storia giusta. 

Non ho smesso di amare la mia indipendenza, non ho abbandonato l'università, perché gli esami rimasti indietro sono pochi, troppo pochi per rinunciare. 
Ho solo rallentato, sapendo che un giorno ricomincerò, ma con nuova forza. Con nuove priorità. Con mia figlia.

Il problema è che in mezzo a tutto questo, in mezzo ai miei desideri e alla mia nuova vita, ci sono anche esigenze più concrete.

Come, ad esempio, il fatto che un solo stipendio in tre ci stia facendo sprofondare in un sotto-zero così sotto-zero che non si vede più l'uscita, neanche quella di emergenza.

Ed è stato dieci giorni fa, mentre la mia mente camminava da sola fra questi pensieri, che ho ricevuto quella telefonata.


giovedì 14 marzo 2013

il dodici marzo


Un dolore fisico, così intenso che pensavo di morire e invece, poi, sono nata. Insieme a te.

I tuoi occhi che entrano nei miei per la prima volta e trasformano tutto in prima volta.

Le lacrime di un ragazzo che "no"-diceva-"di piangere non son proprio capace".
E infatti non è un pianto quello, solo vita che si infila negli occhi.

Una notte intera trascorsa a guardare quella vita piccola piccola che riposa piano e mi respira nell'anima.

Mille altre notti a sperare che anche una vita piccola piccola sia capace di dormire, ogni tanto.

Sentirsi grandi, per la prima volta. E, un istante dopo, non essere mai stati tanto minuscoli.

La felicità nascosta fra le pieghe della pelle, pronta ad essere acchiappata da un bacio.

"Che odore ha un bacio?"  Il tuo profumo è la risposta.

La fatica profonda che prende per mano la leggerezza, 
la stanchezza che si sposa con l’energia, 
il pianto che finisce all'inizio di un sorriso, 
il senso di smarrimento che si trasforma nel sapere di essere al posto giusto. 
Ed io, prima, non ci avrei mai creduto che tutti loro potessero decidere di convivere sotto lo stesso tetto. 
Dentro di me, insieme.

Due occhi bambini in cui il mare entra, come in un castello di sabbia. 
E ci lascia dentro le sue onde che io, adesso, posso vedere ogni giorno. 
E la nostalgia non mi pizzica più lo stomaco.

Una risata che vorrei raccoglierne le scintille e farne un abito da cucirmi addosso e non togliermi più.

Un ballo che nasce al primo  respiro di musica, ovunque tu sia. 
Comunque tu stia. 
Perché il mondo è davvero un posto migliore quando balliamo.

Una passione inarrestabile per lo spazzolino che diventa bacchetta magica. 
E funziona davvero.

Due mani piccoline che lasciano carezze azzurre come la pancia del cielo.

Il sole del tuo sorriso che mi rimane impigliato negli occhi.

L’amore. Scoprire che la sua casa non è il cuore, ma quel piccolo spazio vuoto che rimane fra noi, quando ti abbraccio.






Ecco, è questo il suono che ha la voce di un anno.

Il tuo primo anno di vita, amore mio.


mercoledì 6 marzo 2013

inganno d'amore


Era la prima volta che incontrava un coetaneo.

L'aveva visto da lontano e, veloce come la spontaneità che non perde tempo a pensare, si era avvicinata per raggiungerlo. 

Non aveva nessuna importanza che non lo conoscesse affatto, perché quando si incontra qualcuno e gli occhi si illuminano, questo può bastare.
Quanto vorrei saperlo dire al mio timore di guardare negli occhi le persone.

Lei l'ha rincorso, sfidando la tenace timidezza che portava lui a nascondersi, quasi intimorito da quel raggio di luce improvviso che lo inseguiva.

Ma resistere a lungo a un un sorriso che ti cerca è complicato.

Così, in poco tempo, lui ha mollato la lunga gonna della diffidenza a cui stava aggrappato e ha allungato una mano verso quella di lei, incontrandola, come una rondine che trova finalmente un rifugio caldo e ci si posa sopra. 
E un orecchio attento può sentire un sospiro di gioia.

Loro due sono rimasti fermi così, a guardare la carezza nata nelle loro mani. 
Come se la vedessero per la prima volta, o forse era davvero la prima volta. 

E se qualcuno avesse fatto una foto, in quel preciso momento, avrebbe fotografato il primo respiro della dolcezza. 

E avrebbe potuto appenderlo alle pareti del mondo, pezzo per pezzo. 
Anche solo per ricordare che le nostre mani sanno fare questo. 



Poi, all'improvviso, lei ha mollato la presa e, con balzo felino, ha afferrato il biberon che lui stringeva nell'altra manina ed è schizzata via, gattonando ai trecento all'ora e ridendo per lasciar libera la soddisfazione che le premeva nel petto.

Lui è rimasto pietrificato, troppo incredulo persino per scoppiare a piangere. 



Ed io che cominciavo a chiedermi se fosse sbagliato leggere a mia figlia così tante favole d'amore alla sera, che magari correvo il rischio di farla diventare troppo sognatrice fragile e indifesa. 

sabato 2 marzo 2013

una notte di mezzo inverno


Mezzanotte e mezza, mercoledì sera.

Il buio si alterna a luci accecanti.
Sembrano tentare inutilmente di afferrarsi durante una corsa troppo veloce, per entrambi. 

Ci sono uomini troppo vecchi vestiti di atteggiamenti troppo giovani che ridono e la loro risata è stonata, come quel buio e luce che si inseguono. 

I loro sguardi divorano gambe scoperte di ragazze che ballano sui tavoli, con gli occhi chiusi. 
Come se, non guardando, potessero lasciare all'immaginazione il compito di vedere una realtà migliore. 

"I minorenni non sono ammessi, qui dentro." 

Ha i bottoni della camicia che ci provano a non schizzare via, ma la spinta di quella pancia troppo in fuori lascia presagire che, fra poco, esauriranno ogni forza. 

La testa è calva, come il suo sorriso. 

Ma non sta affatto sorridendo mentre ci parla.




Quattro ore prima.


"Ma perché, perché non stai mai al tuo posto quando serve?" 

Sono davanti allo specchio a litigare con la mia frangia. 

Fra mezz'ora mi verranno a prendere i miei amici del liceo.

E' la prima volta che esco la sera, da quando la piccola è nata. 
E' passato davvero troppo tempo e invece che gioire mi rigiro fra le spire dell'ansia da prestazione.

Ho un'ansia per ogni occasione, sono fortune.


Penseranno che sei noiosa, ingrassata, con la faccia gialla e a tratti verdognola, con le occhiaie a disegnarti gli occhi al posto del trucco. Penseranno che i tuoi capelli sono una massa informe, che la tua vita è una massa informe. 
Penseranno che sei una persona diversa, troppo diversa, troppo lontana. 
Non vorranno vederti più. 

Basta! Stai zitta, stupida ansia. Voglio solo riuscire a prepararmi in santa pace. 

Ma se sei così patetica da aver cucinato dei biscottini per tutti, rischiando anche di perdere un dito mentre tagliavi a scaglie il cioccolato, e li hai pure incartati facendone tanti sdolcinati pacchettini. 
Credi che ti accetteranno solo perché fingi di essere la Nonna Papera di turno? Ridicola. 

Ok, basta. Non esco. Ora li chiamo e dico che sto male.

"Amore. Fai tacere la testa e muoviti. Smetti di fare la catastrofista. Stai solo uscendo con degli amici."

Per fortuna esiste Lui.


Alle nove, suona il campanello.

Nell'ordine, Lui si ustiona una mano con la teglia del forno, la piccola scoppia in lacrime inarrestabili. 

"Ok, non esco. Non posso lasciare te senza una mano e lei che piange. Sono una madre degenere. Una persona degenere." 

"Esci da questa casa o ti butto fuori io."


E così, mi ritrovo fuori casa.

Mi sento inadeguata, entrando in una pizzeria piena di gente e musica fatta di parole e risate leggere. 
Mi sento goffa, come se avessi tre anni e stessi tentando di infilarmi i tacchi di mia madre.

Lentamente, però, comincio ad ambientarmi e l'ansia scivola via, perché la felicità proprio non la può sopportare.
  
Ed io sono felice di essere qui.

Sono felice perché è bello ritrovarsi, aggiornarsi con l'entusiasmo delle cose da dirsi che sono troppe e le parole troppo piccole per farci stare dentro tutto. 

E' bello pensare che diventare madre non sottragga niente alla propria essenza. Ed, anzi, aggiunga. 

Io sono madre, e mi brilla la voce mentre lo dico. 
Ma sono ancora me stessa. Con tutto il positivo e il negativo che questo comporta.

E' bello sentire anche la mia risata unirsi alla musica delle altre.


E' mezzanotte passata quando usciamo da quella pizzeria ed io sono troppo entusiasta per tornare già a casa.
Decido quindi di salire in macchina con due amici alla ricerca di una birreria, per finire di scambiarci i pezzi di quel tempo che abbiamo trascorso distanti. 

Ma il mercoledì sera ha una certa età e gli piace andare a letto presto, avvolto in una copertina calda. 
Per questo, è difficile trovare qualcosa di aperto dopo la mezzanotte e in breve tempo ci ritroviamo a girare senza meta.

"Ehi, guarda lì, fuori da quel bar ci sono alcune persone. Magari è ancora aperto. Fermiamoci, dai!" 

"Ma sì, dai, è carino da fuori. Tutto dipinto di verde, sembra la casetta dei folletti."

La casetta dei folletti, proprio.

Mentre entriamo, quel posto si toglie l'impermeabile da casetta e ci mostra i suoi vestiti succinti da locale notturno. 
Ma, ancor prima di realizzarlo, il proprietario ci si piazza davanti scambiandoci per minorenni. 
Chissà se a farglielo credere sono le nostre facce sbigottite o i miei jeans che evidentemente cozzano con la fauna di mini-mini-minigonne circostanti.

Non siamo stati troppo a chiedercelo e siamo corsi fuori, ridendo, perché ci capitavano sempre delle avventure improbabili, anche quando uscivamo insieme ai tempi del liceo. 
E ne ridevamo, la mattina seguente, seduti sui banchi di scuola, per allontanare la paura dell'interrogazione che ci sarebbe stata di lì a poco. 

E adesso invece ne rido mentre torno a casa, da mia figlia. 
E qualcuno mi ha appena dato della minorenne. 
A me, che fino a poche ore fa, non mi ricordavo più neanche la faccia della giovinezza. 

domenica 24 febbraio 2013

cinque fiocchi di neve


Il silenzio. 
Così fitto che sembra di toccarlo. 
E ti chiedi dove si nasconda, tutti gli altri giorni. 
E pensi che ci vorrebbe un angolo di silenzio, ogni giorno. 
Per svuotarci dentro i pensieri e tappare loro la bocca, anche solo per un istante. 
Per sentire meglio il battito di un cuore o il respiro che entra e poi esce. 

Il bianco.
Che si posa sui colori, per farli riposare.
Che abbraccia le case, le strade ed anche me.
Che fa socchiudere gli occhi di chi lo guarda perché i suoi, di occhi, brillano troppo.

Il cambio di programma.
E scoprire che non sempre è un male togliersi la cintura dell'organizzazione e accogliere l'imprevisto.

Il calore umano.
Quello del vicino con cui non hai parlato mai e adesso prende una pala in mano e ti aiuta a spalare.
Quello di chi ha la macchina parcheggiata accanto alla tua e, mentre la pulisce, ti racconta la sua giornata.
E chissà, poi, perché ci si ricorda solo in questi casi quanto sia bello incontrare il viso e le parole di chi non si conosce. 

La bellezza.
Della ragazza con un fiore fra i capelli che camminava a faccia in su e rideva.
E sembrava una primavera innamorata dell'inverno.
Di un albero che, appesantito, abbassa le sue lunghe dita fra cui nasconde una carezza.
Di rami che erano nudi e ora indossano un sorriso bianco.
Di bambini che giocano fra quei sorrisi, fra quelle carezze.
E, forse, niente è più bello di un bambino che gioca.

venerdì 22 febbraio 2013

il mattino ha il termometro in bocca


Mi sono alzata con la regione ovest dei capelli che aveva deciso di conoscere meglio la regione est. 
Allora nord e sud, per non sentirsi tagliati fuori, hanno pensato di partecipare anche loro. 
E così dopo danze e festeggiamenti, si sa come finiscono queste cose, hanno generato tutti un dolce nodo paffutello. 
E fu così che i miei capelli diventarono un asilo nido per nodi. 

Gli occhi socchiusi di chi non ha dormito neanche un minuto per tutta la notte. Socchiusi, perché è già mattina e non ci credono nemmeno loro.

Una bambina in braccio, con naso colante e occhi lucidi come giustificazione evidente della ore indimenticabili appena trascorse.

Ho guardato il divano e mi sono presa un colpo.

All'inizio ho pensato fosse un ladro. 
Un ladro un po' sprovveduto che, una volta classificati i pannolini come oggetto più costoso, si era addormentato di noia.

Poi ho guardato meglio e creduto con orrore che fosse un qualche animale morto recapitato generosamente dal gatto come trofeo.

Ma, successivamente, un rantolo inquietante si è sollevato da quel groviglio di coperte ammassate sul divano. 
E ho riconosciuto la sua voce.

"Ma non eri a lavoro?"

"Sodo malado." 

Da quel momento, le cose sono precipitate. 

La piccola malata, Lui malato, chiazze di vomito di gatto per tutta la casa, la bufera di neve. 
E il sonno che mi graffiava la faccia con unghie piuttosto affilate.

Ah, e nessuna medicina in casa. Ovviamente. 
Chi tiene medicinali in casa d'inverno?

Sono quindi dovuta uscire sotto la tormenta, in pigiama, condita di vomito felino e muco infantile, portandomi anche la piccina appresso. 
L'alternativa era lasciarla al padre in preda a delirio febbrile. 
Tipo che se lei avesse deciso di bersi a collo tutti i detersivi presenti in casa per dimenticare le sue disgrazie, Lui non se ne sarebbe neanche accorto. 
Anzi, probabilmente avrebbe brindato alla sua salute.

Una volta rientrata mi sono divisa freneticamente, tutto il giorno, fra Lui che stava compilando le ultime volontà e lei che si era trasformata in una scimmia urlatrice. 
E un gatto che aveva deciso di istituire oggi come giorno del "liberiamo lo stomaco da tutto ciò che ho mangiato in questi ultimi tre anni".

Il tutto pervaso dall'ansia che intratteneva una fitta conversazione con la mia pancia. 
E le raccontava di come fosse accogliente la sua nuova dimora a forma di impotenza che si prova davanti a due occhi bambini lucidi di febbre.

Per cui ora mi ritrovo qui, seduta per la prima volta da quando mi sono alzata stamattina, a scrivere per disturbare le chiacchiere dell'ansia, con lo stesso pigiama color vomito e muco, con il sonno che mi sta appoggiato sulla testa.

E son seduta qui perché ci ho provato ad andare a letto, certo che ci ho provato. 

Ma al sedicesimo risveglio da urla disperate con relativa passeggiata e canzoncina, ho deciso che sul divano ci stavo meglio.

E poi, mi sa pure che ho mal di gola.

lunedì 18 febbraio 2013

il fiore giallo


Ci sono giorni così.

Il tempo striscia via, sotto la porta. 
E quando mi giro a cercarlo è già buio.

La solitudine si arrampica sui muri di una casa troppo piccola. 
E mi fissa, mentre tento di cacciarla con mani stanche.

La pappa preparata una volta e sputata per terra. 
Preparata un'altra volta, in modo diverso, sputata in faccia.
Provarci di nuovo, con latte e biscotti. Urla che spaccano i vetri e sputo relativo.
Non demordere e continuare, dopo un'ora, con pera e biscotti e poi mela e pera. Sputo a fontana, manco a dirlo.

Ritrovarmi a mangiare tutto io e in modo abbastanza compulsivo, pure. 
La pappa, il latte, la pera, la mela, i biscotti. 
E anche i pianti, per non sentirli più.

Nel frattempo, guardare il mio proposito di cominciare la dieta prendere a braccetto la mia forza di volontà e allontanarsi mentre ridacchiano. Di me. 
Ma che vi ridete, dico io. 


E poi, ci sono altri giorni.

Giorni in cui mi alzo la mattina con una bimba che mi chiama mamma e, appena uscita dalla camera, mi indica la radio cominciando a sculettare e dare colpi di bacino che io neanche a diciott'anni. 
Non per niente mi chiamavano ciocco di legno.

Cominciare la giornata ballando, dovrebbero istituirla come legge categorica e universale.

Il sole che bussa alle finestre e ci invita ad uscire. 

Abbiamo sorpreso il parco che non si aspettava visite, in un lunedì mattina d'inverno. 
Era persino svestito e con baffi di neve sul viso ancora addormentato. 



quasigiovane


Ma poi si è truccato in fretta, con qualche raggio di sole e un po' di verde che, in mezzo ai rami nudi, sembra una promessa.




Non c'era quasi nessuno, se non qualche coraggioso che correva con tutta la mia stima. 
Ah! E un amico fidato, naturalmente.





Anche gli alberi volevano partecipare al nostro strano circolo, e allungavano l'ombra per sentire meglio.



Abbiamo visto un signore anziano camminare mentre scriveva. Sorridendo.

Chissà cosa scriveva, forse la voce segreta della primavera.

La primavera che spunta in mezzo alla neve.





Anche questa giornata ora mi sembra un fiore giallo, accarezzato per la prima volta dal sole e da dita piccoline. 

Questo ho pensato mentre, tornate a casa, Lei gattonava spargendo la primavera ovunque.



sabato 16 febbraio 2013

un amore


C'era una volta il mare.

E il mare, un tempo, era grigio.

Pochi lo sanno, perché è un segreto che tiene rapito nei suoi abissi, celato agli occhi di chi non sa vedere.

Il mare era rimasto a guardare le creature del mondo vestirsi dei colori più belli, senza saperne scegliere uno per dipingere la sua immensità.

Così, lentamente, il desiderio di colore si spense, tingendolo di grigio. 
Grigio nostalgia.

Nonostante questo, continuava il suo lavoro e, ogni giorno, dava nutrimento ai pesci e li amava, come si amano i propri figli, e andava incontro alle rocce e le avvolgeva, definendo forme e profumi.
Cullava le barche, accompagnando alcune verso l'amata casa e altre verso viaggi senza meta.

Era maestoso e ammirato, niente spezzava la sua forza.
Ma era grigio e, poiché il grigio ha sempre fame di colore, tutti avevano paura di lui. 
Temevano di essere cancellati.

Con il tempo, il grigio si mangiò anche la nostalgia e il mare chiuse gli occhi, lasciandosi scivolare avanti e indietro.

Un giorno, sentì una nuova forma d'acqua sfiorare la sua superficie.
Acqua che non conosceva, che non gli apparteneva.
Capì che arrivava  dall'alto, dove lui non aveva mai guardato. 
In realtà, non aveva mai neanche pensato che potesse esserci qualcosa sopra di lui.

La curiosità, con mani abili, aprì i suoi occhi e per la prima volta il mare guardò in su.
Vide la marcia disordinata di mille gocce e allora chiese:

"cosa siete?"

"siamo pioggia, lacrime di cielo." Risposero.

"Cos'è il cielo?" Domandò il mare, che non ne aveva mai sentito parlare.

E mentre domandava, incrociò proprio gli occhi del cielo e le sue onde tentarono un impossibile volo, solo per raggiungere quegli occhi, solo per poterli osservare più da vicino.

Il mare si rivolse al cielo:

"perché piangi?"

La voce del cielo diventò vento:

"piango per te. Ho sentito la tua nostalgia per molto tempo e tante volte ho pianto per far scivolare giù i miei colori e donarteli.
Ma non sei più capace neanche di sentire la nostalgia e allora ho deciso che io la proverò per te. Io proverò per te tutto ciò che non sai provare."

Il mare, nella profondità del suo ventre, ascoltò la musica di una danza segreta che coinvolgeva ogni suo abitante

Il cielo gli sorrise d'azzurro, allargando il suo infinito.
Gli sorrise con un volo di gabbiani che si posarono sulla pelle del mare.

La musica degli abissi ubriacò ogni angolo degli oceani.

I gabbiani erano braccia e gambe del cielo e il mare ballò con lui, al suono di quella melodia.

Improvvisamente, il mare si fermò.

"Come puoi provare amore nel guardarmi? Io sono grigio. 
Niente in me possiede colori."

"Io sono parte di te, come puoi dire di non avere colori?" Rispose il cielo.

"Ma noi siamo così distanti, non puoi essere parte di me." 
E le sue onde grigie lasciarono volar via le ali di gabbiano.

Il cielo parlò di nuovo: 

"mio mare, quando il mondo è nato, la natura si avvolgeva su se stessa in un unico elemento e mare e cielo erano una cosa sola, indivisibile. 
Ora dimmi, se siamo stati abbracciati alla nascita del tutto, come puoi credere di essere troppo lontano da me?"

Il mare sentì un'onda nascere da quegli abissi di musica e innalzarsi con forza.
La forza di una tempesta, la forza di tutta la natura che accompagna una piccola onda che aspira al cielo.

Cresceva, cresceva sempre di più, con la ferma speranza di chi sa che sta tentando qualcosa di irraggiungibile, ma ha abbastanza amore per permettersi di provarci.

Riuscì solo a sfiorare il cielo, quel cielo che gli aveva insegnato a vedere, a danzare, ad amare.

E cadde giù.

"Cielo" disse il mare "non ci riesco, non riesco a raggiungerti."

Il cielo pianse, perché era l'unico modo per toccare l'amato mare.

La sua pioggia, allora, incontrò l'onda coraggiosa.
E tale fu l'impatto che lì, esattamente in quel punto, nacque il sole.

Esplosero i suoi raggi e precipitarono giù, come radici nel mare.
E non ci furono più parole, solo il loro eterno bacio.

Alla fine di quella luce, in lontananza, si scorgono due ombre.

Sono due ragazzi con lo stesso sorriso, gli stessi occhi. 
Al collo hanno ghirlande colorate e si tengono per mano, celebrando quel matrimonio di natura.

E proprio lì, dove finisce il bacio fra cielo e mare, inizia il loro bacio d'amore.

mercoledì 13 febbraio 2013

un-dici a me?


Fino a ieri, quando ti chiedevo:

"Chi sono io?"

Tu rispondevi con un convintissimo:

"Ga!"

Oppure con una pernacchia.

Per attirare la mia attenzione, nei momenti di bisogno, intonavi un sonoro:

"Ahooooò!" 

Da romana verace, anche se romana non sei.

Stamattina, al tuo (cinquantesimo) risveglio, le hai provate tutte per convincermi ad alzarmi: urla, tentativi di auto-soffocamento, pianto disperato, estirpazione di quei due peli che ti ritrovi in testa e poi, di nuovo, tutto da capo. 

Ma il Sonno mi sussurrava all'orecchio di posti incantevoli, dove i fiumi scorrono limpidi e gli uccellini cantano. 
Ed io proprio non ce la facevo a non ascoltarlo.

Allora tu, che da tuo padre hai ereditato anche la furbizia, quella più subdola, quella che ammalia, sei stata zitta. 
Hai lasciato che il silenzio fosse il palcoscenico della tua mossa successiva.

Ti sei arrampicata alle sbarre del lettino, mettendoti in piedi. 
Ti sei voltata nella direzione del mio corpo abbandonato alle lusinghe di Morfeo.

E, dolcemente, hai strillato:

"Mamma!"

Mamma.

Dici a me? 

No, perché mi sembra incredibile essere davvero la madre di qualcuno. 
Io, che a pensarci bene non so neanche prendermi cura di me stessa. 

Mi sembra incredibile ritrovarmi nell'abbraccio di cinque lettere a forma di culla, a forma d'amore. 

Mi sembra incredibile rinascere dalla tua voce che mi chiama.

Ho dato un pugno in un occhio al povero Sonno e sono schizzata fuori dal letto per prenderti, abbracciarti, baciarti, ballare e cantare e dipingere di rosa tutte le pareti di casa e anche il gatto.

E tu, dall'alto dei tuoi nuovi undici mesi, hai sorriso. 
Perché lo sai -eccome se lo sai- di avermi totalmente ed irrimediabilmente in pugno.


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