mercoledì 27 marzo 2013

quotidianità - seconda parte.


"Pronto? Buongiorno, siamo il Supermercato! 
Volevamo sapere quali sono i suoi rapporti con noi."

"Rapporti? Uhm...vediamo...ah, sì! Mi avete lasciata a casa appena vi ho comunicato di essere incinta!"

"No, no, questo lo sappiamo! (Ah, ne sono felice!
Volevamo appunto chiederle quanti mesi ha la sua bambina."

"Un anno, appena compiuto."
(Cioè, mi state chiamando dopo quasi due anni per sapere come sta mia figlia? La prossima domanda sarà riguardo la marca di pannolini che uso?)

"Fantastico! E lei sta lavorando?"

"No."

"Ah, e sarebbe disponibile a tornare a lavorare per noi?"

"Non ho capito."

"Le stiamo offrendo un lavoro."

"Non ho capito."

"Vorremmo sapere se sarebbe disposta a cominciare fra una settimana."

"Non ho capito."

"Perfetto! Allora la aspettiamo oggi pomeriggio per firmare il contratto!"



Io, lo giuro, sono rimasta con espressione ebete per parecchie ore, forse anche giorni. 
Probabilmente ancora adesso un pesce palla si porta dietro una faccia più intelligente della mia.
No, davvero. 
Ancora non mi sembra vero che possano avermi chiamata per lavorare, senza che io abbia chiesto nulla. 
Solo sperato. Solo pensato. 
Pensato che era il momento di ricominciare la semina di curricula, perché la situazione stava diventando disperata.
Solo pensato, sapendo che forse, probabilmente, magari, e comunque poco verosimilmente, mi avrebbe risposto qualcuno fra mesi.

E, invece, mi sono ritrovata così. 
Un lavoro che ho odiato e anche molto poco pagato, ma UN LAVORO! 
Oddio, un lavoro!
Potrebbe essere qualsiasi lavoro in questo momento, che importa? 
Era quello di cui avevamo bisogno, ma bisogno veramente. 
Forse per questo mi sembra il lavoro più meraviglioso di tutti i tempi.
Vorrei abbracciarlo, se solo potessi. 
Vorrei avere braccia abbastanza lunghe da circondare quelle vecchie pareti grigie e fredde da Supermercato e stringerlo, stringerlo forte. 

Mi sono ritrovata così. 
La leggerezza luminosa di un sospiro di sollievo. 
La gratitudine inaspettata che fiorisce dentro come un germoglio sopravvissuto all'inverno.
Una figlia. Nessuna macchina. Sette giorni di tempo. Ah.

Il tempo è scivolato via, veloce. 
Senza neanche riuscire a riempire per bene le giornate, ma sfiorandole soltanto.

E così, si è già compiuta la mia prima settimana lavorativa.
Una settimana che mi ha ribattezzata come figura retorica. 
L'ossimoro, più precisamente.

Perché è incredibile sentire l'antitesi di sensazioni che si aggroviglia dentro e ti scinde in due.

Due metà perfette.

Una metà in cui vive la felicità di lavorare ed anche di ritrovare un pezzetto di se stessi. 
Quello che ritorna nel mondo degli adulti, che può parlare e sentirsi rispondere da qualcuno che articola suoni più elaborati di un "ga!" 

Nell'altra metà abita, invece, un qualcosa a cui nemmeno so dare un nome. Qualcosa che è la separazione da mia figlia dopo dodici mesi di simbiosi. 
Una separazione minima, è vero, ma che ugualmente mi intreccia la pancia al cuore quando, al mattino, la lascio a qualcuno che non sono io. 
E mi ritrovo con le lacrime a gonfiarmi gli occhi lungo il tragitto, senza neanche capire bene il perché.

A supervisionare il tutto, per assicurarsi di mantenere la giusta armonia fra le due parti, c'è -neanche a dirlo- la cara, vecchia Ansia. 
In quanto fidata amica, non poteva mancare nel tenermi le mani per assicurarsi di farmele tremare!

Nel tentativo di farle comprendere che la sua presenza non è gradita, non potendo ricorrere a psicofarmaci o sedativi in dose massiccia, sto usando due pozioni magiche. 
(Questo è un indicatore abbastanza chiaro del fatto che forse, e dico forse, la mia stabilità mentale ha deciso di trasferirsi altrove. Lontano, molto lontano).

La prima, è una tisana:







La seconda, è proprio un filtro magico:







Si chiama proprio così. Dopo la pioggia.

Perché ti lascia addosso quel ricordo di piedi freddi che si abbracciano sotto le coperte, mentre fuori la tempesta canta.

Ti lascia addosso quel colore di prato che, lentamente, apre un occhio. 
Uno soltanto. Tanto basta per accertarsi che sia tutto finito. 

Ti lascia addosso l'odore di cielo fresco, che ti è appena piovuto dentro.

E, allora, chi se lo ricorda più l'odore dell'ansia?

giovedì 21 marzo 2013

quotidianità - prima parte.


Era l'estate del 2011, ed io da più di un anno lavoravo come una disperata per riuscire a pagare la retta dell'università più affitto e spese insieme a Lui.

Durante il pomeriggio studiavo, 
dalle nove di sera fino all'una del mattino facevo la barista dentro un cinema, dalla mattina alle otto fino alle sedici ero una cassiera in un supermercato.

Un supermercato che insieme detestavo e ringraziavo, come si fa con un insegnante severo che ti spreme fino alle lacrime più amare, ma nel frattempo ti insegna la vita.

Lo odiavo, perché lì dentro mi sfruttavano ai massimi livelli, approfittando della mia totale e disarmante incapacità di dire "no". 
E non per bontà, ma per semplice debolezza. E insicurezza. 
Perché sono posseduta da questo germe che mi mangia pezzetti di cuore di fronte al rifiuto. 
Quindi io, di rifiutarmi, sono incapace. 
Anche quando sarebbe veramente necessario. 
Anche quando ci va di mezzo il rispetto per me stessa. 

Perciò, da commessa part-time ero diventata quella che "puoi-chiamarla-a-qualsiasi-ora-del-giorno-e-della-notte-e-in-un-attimo-sarà-qui".

Risultato: lavoravo più di un full-time e, a volte, iniziavo alle sei del mattino con nuova mansione di carico e scarico merci. 
Ed io che a fare queste cose mi ero sempre immaginata un possente e nerboruto signore, munito di canottiera con riccioli di peli annessi.

Nonostante questo, ero grata a quel supermercato. 
Perché, grazie a lui, stavo realizzando i miei sogni.

Riuscivo a pagare l'università, la prima vera cosa che facevo per me e solo per me. 
Per lungo tempo avevo pensato che non me la sarei mai potuta permettere. 
Invece, con quel pizzico di incoscienza che certe volte è l'ingrediente segreto per un'ottima riuscita, sono uscita di casa per cercare uno, due, dieci lavori. Avrei fatto tutto il necessario per riuscire ad ottenere ciò che desideravo.
Sono andata ad acchiappare la mia indipendenza con le mani, strappandole i capelli, quasi. 
E trovati i lavori, potevo finalmente studiare, come ho sempre amato fare.

Ma potevo anche dividere l'affitto con il mio amore e stendermi su un pavimento ancora vuoto con i vestiti sporchi di pittura, a riempirci gli occhi del verde appena steso sulle pareti, a ridere per una casa piccola così, ma con una stanza di prato ed una di mare. 
Ci sembrava di aver catturato l'infinito.

Potevo usare una macchinina un po' catorcio e non di mia proprietà, ma amata come si ama il vento tiepido che entra dentro un finestrino abbassato e la musica che si abbandona alle sue braccia trasparenti, trafitta di passione.

Potevo avere tutto questo, ed era grazie a quel cinema, ma soprattutto a quell'odiato supermercato.

Per questi motivi, arrivavo a casa stanca, stanchissima, ma lo ringraziavo ogni giorno. 

Poi, a luglio di quello stesso anno, ho scoperto di essere incinta.

In un colpo solo, ho perso i miei lavori (drammi della precarietà), la macchina, l'indipendenza.

Ci ho messo un po' a riprendermi, perché l'egoismo umano è tenace e lotta per la sopravvivenza.
Perché era già successo più di una volta, per altri motivi, che la mia vita cambiasse in modo radicale da un giorno all'altro.

Come fossi un personaggio di carta che, a intervalli quasi regolari, si ritrova improvvisamente a respirare fra le righe di un libro che non è più quello in cui si è addormentato la sera prima.

Ma poi, inaspettatamente, ho scoperto un altro mondo, al quale prima nemmeno pensavo, perché mi sembrava così lontano.

Un mondo fatto di un amore così intenso che non mi sta nel cuore, che straripa e dilaga nelle braccia, nelle mani. 
Nei piedi, gli occhi, i capelli...il mio corpo è amore per lei.

Ed io davvero prima non immaginavo neanche che gli esseri umani potessero amare in questo modo assoluto. 

Allora ho capito che questo è il libro giusto. 
Che lei, Lui ed io siamo la storia giusta. 

Non ho smesso di amare la mia indipendenza, non ho abbandonato l'università, perché gli esami rimasti indietro sono pochi, troppo pochi per rinunciare. 
Ho solo rallentato, sapendo che un giorno ricomincerò, ma con nuova forza. Con nuove priorità. Con mia figlia.

Il problema è che in mezzo a tutto questo, in mezzo ai miei desideri e alla mia nuova vita, ci sono anche esigenze più concrete.

Come, ad esempio, il fatto che un solo stipendio in tre ci stia facendo sprofondare in un sotto-zero così sotto-zero che non si vede più l'uscita, neanche quella di emergenza.

Ed è stato dieci giorni fa, mentre la mia mente camminava da sola fra questi pensieri, che ho ricevuto quella telefonata.


giovedì 14 marzo 2013

il dodici marzo


Un dolore fisico, così intenso che pensavo di morire e invece, poi, sono nata. Insieme a te.

I tuoi occhi che entrano nei miei per la prima volta e trasformano tutto in prima volta.

Le lacrime di un ragazzo che "no"-diceva-"di piangere non son proprio capace".
E infatti non è un pianto quello, solo vita che si infila negli occhi.

Una notte intera trascorsa a guardare quella vita piccola piccola che riposa piano e mi respira nell'anima.

Mille altre notti a sperare che anche una vita piccola piccola sia capace di dormire, ogni tanto.

Sentirsi grandi, per la prima volta. E, un istante dopo, non essere mai stati tanto minuscoli.

La felicità nascosta fra le pieghe della pelle, pronta ad essere acchiappata da un bacio.

"Che odore ha un bacio?"  Il tuo profumo è la risposta.

La fatica profonda che prende per mano la leggerezza, 
la stanchezza che si sposa con l’energia, 
il pianto che finisce all'inizio di un sorriso, 
il senso di smarrimento che si trasforma nel sapere di essere al posto giusto. 
Ed io, prima, non ci avrei mai creduto che tutti loro potessero decidere di convivere sotto lo stesso tetto. 
Dentro di me, insieme.

Due occhi bambini in cui il mare entra, come in un castello di sabbia. 
E ci lascia dentro le sue onde che io, adesso, posso vedere ogni giorno. 
E la nostalgia non mi pizzica più lo stomaco.

Una risata che vorrei raccoglierne le scintille e farne un abito da cucirmi addosso e non togliermi più.

Un ballo che nasce al primo  respiro di musica, ovunque tu sia. 
Comunque tu stia. 
Perché il mondo è davvero un posto migliore quando balliamo.

Una passione inarrestabile per lo spazzolino che diventa bacchetta magica. 
E funziona davvero.

Due mani piccoline che lasciano carezze azzurre come la pancia del cielo.

Il sole del tuo sorriso che mi rimane impigliato negli occhi.

L’amore. Scoprire che la sua casa non è il cuore, ma quel piccolo spazio vuoto che rimane fra noi, quando ti abbraccio.






Ecco, è questo il suono che ha la voce di un anno.

Il tuo primo anno di vita, amore mio.


mercoledì 6 marzo 2013

inganno d'amore


Era la prima volta che incontrava un coetaneo.

L'aveva visto da lontano e, veloce come la spontaneità che non perde tempo a pensare, si era avvicinata per raggiungerlo. 

Non aveva nessuna importanza che non lo conoscesse affatto, perché quando si incontra qualcuno e gli occhi si illuminano, questo può bastare.
Quanto vorrei saperlo dire al mio timore di guardare negli occhi le persone.

Lei l'ha rincorso, sfidando la tenace timidezza che portava lui a nascondersi, quasi intimorito da quel raggio di luce improvviso che lo inseguiva.

Ma resistere a lungo a un un sorriso che ti cerca è complicato.

Così, in poco tempo, lui ha mollato la lunga gonna della diffidenza a cui stava aggrappato e ha allungato una mano verso quella di lei, incontrandola, come una rondine che trova finalmente un rifugio caldo e ci si posa sopra. 
E un orecchio attento può sentire un sospiro di gioia.

Loro due sono rimasti fermi così, a guardare la carezza nata nelle loro mani. 
Come se la vedessero per la prima volta, o forse era davvero la prima volta. 

E se qualcuno avesse fatto una foto, in quel preciso momento, avrebbe fotografato il primo respiro della dolcezza. 

E avrebbe potuto appenderlo alle pareti del mondo, pezzo per pezzo. 
Anche solo per ricordare che le nostre mani sanno fare questo. 



Poi, all'improvviso, lei ha mollato la presa e, con balzo felino, ha afferrato il biberon che lui stringeva nell'altra manina ed è schizzata via, gattonando ai trecento all'ora e ridendo per lasciar libera la soddisfazione che le premeva nel petto.

Lui è rimasto pietrificato, troppo incredulo persino per scoppiare a piangere. 



Ed io che cominciavo a chiedermi se fosse sbagliato leggere a mia figlia così tante favole d'amore alla sera, che magari correvo il rischio di farla diventare troppo sognatrice fragile e indifesa. 

sabato 2 marzo 2013

una notte di mezzo inverno


Mezzanotte e mezza, mercoledì sera.

Il buio si alterna a luci accecanti.
Sembrano tentare inutilmente di afferrarsi durante una corsa troppo veloce, per entrambi. 

Ci sono uomini troppo vecchi vestiti di atteggiamenti troppo giovani che ridono e la loro risata è stonata, come quel buio e luce che si inseguono. 

I loro sguardi divorano gambe scoperte di ragazze che ballano sui tavoli, con gli occhi chiusi. 
Come se, non guardando, potessero lasciare all'immaginazione il compito di vedere una realtà migliore. 

"I minorenni non sono ammessi, qui dentro." 

Ha i bottoni della camicia che ci provano a non schizzare via, ma la spinta di quella pancia troppo in fuori lascia presagire che, fra poco, esauriranno ogni forza. 

La testa è calva, come il suo sorriso. 

Ma non sta affatto sorridendo mentre ci parla.




Quattro ore prima.


"Ma perché, perché non stai mai al tuo posto quando serve?" 

Sono davanti allo specchio a litigare con la mia frangia. 

Fra mezz'ora mi verranno a prendere i miei amici del liceo.

E' la prima volta che esco la sera, da quando la piccola è nata. 
E' passato davvero troppo tempo e invece che gioire mi rigiro fra le spire dell'ansia da prestazione.

Ho un'ansia per ogni occasione, sono fortune.


Penseranno che sei noiosa, ingrassata, con la faccia gialla e a tratti verdognola, con le occhiaie a disegnarti gli occhi al posto del trucco. Penseranno che i tuoi capelli sono una massa informe, che la tua vita è una massa informe. 
Penseranno che sei una persona diversa, troppo diversa, troppo lontana. 
Non vorranno vederti più. 

Basta! Stai zitta, stupida ansia. Voglio solo riuscire a prepararmi in santa pace. 

Ma se sei così patetica da aver cucinato dei biscottini per tutti, rischiando anche di perdere un dito mentre tagliavi a scaglie il cioccolato, e li hai pure incartati facendone tanti sdolcinati pacchettini. 
Credi che ti accetteranno solo perché fingi di essere la Nonna Papera di turno? Ridicola. 

Ok, basta. Non esco. Ora li chiamo e dico che sto male.

"Amore. Fai tacere la testa e muoviti. Smetti di fare la catastrofista. Stai solo uscendo con degli amici."

Per fortuna esiste Lui.


Alle nove, suona il campanello.

Nell'ordine, Lui si ustiona una mano con la teglia del forno, la piccola scoppia in lacrime inarrestabili. 

"Ok, non esco. Non posso lasciare te senza una mano e lei che piange. Sono una madre degenere. Una persona degenere." 

"Esci da questa casa o ti butto fuori io."


E così, mi ritrovo fuori casa.

Mi sento inadeguata, entrando in una pizzeria piena di gente e musica fatta di parole e risate leggere. 
Mi sento goffa, come se avessi tre anni e stessi tentando di infilarmi i tacchi di mia madre.

Lentamente, però, comincio ad ambientarmi e l'ansia scivola via, perché la felicità proprio non la può sopportare.
  
Ed io sono felice di essere qui.

Sono felice perché è bello ritrovarsi, aggiornarsi con l'entusiasmo delle cose da dirsi che sono troppe e le parole troppo piccole per farci stare dentro tutto. 

E' bello pensare che diventare madre non sottragga niente alla propria essenza. Ed, anzi, aggiunga. 

Io sono madre, e mi brilla la voce mentre lo dico. 
Ma sono ancora me stessa. Con tutto il positivo e il negativo che questo comporta.

E' bello sentire anche la mia risata unirsi alla musica delle altre.


E' mezzanotte passata quando usciamo da quella pizzeria ed io sono troppo entusiasta per tornare già a casa.
Decido quindi di salire in macchina con due amici alla ricerca di una birreria, per finire di scambiarci i pezzi di quel tempo che abbiamo trascorso distanti. 

Ma il mercoledì sera ha una certa età e gli piace andare a letto presto, avvolto in una copertina calda. 
Per questo, è difficile trovare qualcosa di aperto dopo la mezzanotte e in breve tempo ci ritroviamo a girare senza meta.

"Ehi, guarda lì, fuori da quel bar ci sono alcune persone. Magari è ancora aperto. Fermiamoci, dai!" 

"Ma sì, dai, è carino da fuori. Tutto dipinto di verde, sembra la casetta dei folletti."

La casetta dei folletti, proprio.

Mentre entriamo, quel posto si toglie l'impermeabile da casetta e ci mostra i suoi vestiti succinti da locale notturno. 
Ma, ancor prima di realizzarlo, il proprietario ci si piazza davanti scambiandoci per minorenni. 
Chissà se a farglielo credere sono le nostre facce sbigottite o i miei jeans che evidentemente cozzano con la fauna di mini-mini-minigonne circostanti.

Non siamo stati troppo a chiedercelo e siamo corsi fuori, ridendo, perché ci capitavano sempre delle avventure improbabili, anche quando uscivamo insieme ai tempi del liceo. 
E ne ridevamo, la mattina seguente, seduti sui banchi di scuola, per allontanare la paura dell'interrogazione che ci sarebbe stata di lì a poco. 

E adesso invece ne rido mentre torno a casa, da mia figlia. 
E qualcuno mi ha appena dato della minorenne. 
A me, che fino a poche ore fa, non mi ricordavo più neanche la faccia della giovinezza. 

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