martedì 23 settembre 2014

città di mare


La gente di mare ha la pelle cotta dal sole e rughe che tracciano le rotte fino agli occhi, lì dove il mare si infila e rimane.
Come una tempesta che infuria e si placa solo quando torni a casa.

Le città di mare ti aspettano, ovunque tu vada. 
Tanto lo sanno che poi torni sempre. 

Le città di mare hanno un porto di barche grandi come la libertà, e il legno marcio dei pontili battuti dalle onde e dalle speranze. E dai pianti.

Ci sono strade così strette che devi trattenere il respiro, e poi il mare appare all'improvviso in fondo alla via e il respiro esplode nel petto e negli occhi.

Le città di mare hanno l'odore che si appoggia sui ricordi e non va più via, neanche se sfreghi bene con la schiuma della distanza, che inghiotte tutto. 
Ma non quell'odore.

Il mare è un amico bizzarro che si agita all'improvviso, ma poi sempre si spinge fino a riva ad accarezzarti la punta dei piedi per invitarti a ballare.

Nelle città di mare i racconti sono dentro ogni ciottolo che calpesti e tu cammini e ne trovi uno che sembra davvero parlare di te e pensi alla fortuna. 
Ma non è fortuna, è il destino.

Il destino vive in una città di mare, dovresti saperlo. 
E' lì che l'abbiamo incontrato la prima volta.

Voglio ascoltarla ancora la storia del vecchio marinaio che alla fine della sua vita era cieco. 
E l'avevano portato in una casa molto lontana dal mare e lo aiutavano a sedersi, ma lui diceva:
"così non riesco a vedere il mare, per favore, mettetemi rivolto verso di lui".

Perché gli occhi consumati dalla ruvidezza delle onde avevano ancora sete, avranno sempre sete. 

Ti stringo forte la mano perché questa è casa mia e tu sei con me. 
Tu che hai gli occhi come quelli di nostra figlia.
Che hai gli occhi come questo mare. 

lunedì 15 settembre 2014

istruzioni per fare una buona impressione


Due ore di esame sono tante da affrontare.

Come odio quell'ansia strisciante che al mattino si sveglia con me.
A pensarci bene, durante la notte è già lì. 
A prendersi le mie coperte ed appoggiare la testa di capelli ispidi sul mio cuscino.

Tanto le gambe devo costringerle lo stesso a raggiungere l'aula dove l'esame comincia ed è come le gare di nuoto quando l'odore del cloro ti attorciglia lo stomaco, ma solo finché il fischio di partenza non arriva.
Perché poi ti tuffi e la paura scivola via e l'acqua diventa una carezza.

Due ore di esame scritto sono tante, ma devo solo aspettare il fischio.
Girare il foglio.
Leggere le domande.
"Le so. Graziesignoregrazie". E il foglio diventa una carezza.

E' quello il momento, credo. 
Quello in cui vengo presa da una sorta di furor creativo.
Mi piacerebbe poter raccontare di quanto mi renda estremamente affascinante, ma la verità è che mi fa sembrare pazza.
Più pazza, intendo.

I capelli si arruffano, gli occhi sono spiritati, i fogli si accumulano e i vestiti si tingono d'inchiostro.

Dovrei portarmi il grembiule impermeabile di mia figlia. 
Quello che indossa mentre disegna e i colori scappano via, si infilano sotto i mobili e dentro il suo sorriso.

Quando il tempo a mia disposizione è finito, ho consegnato i fogli e mi sono avvicinata al professore.
Io quel professore lo amo con ammirazione e rispetto, come si ama chi sembra detenere il segreto del mondo.

E finalmente ho avuto il coraggio di chiedergli informazioni sulla tesi.
Perché voglio che il mio relatore sia lui e quindi ho truccato con molti strati di cerone la mia inadeguatezza 
per farla sembrare impeccabile sicurezza.
Per fargli una buona impressione. 
Per sembrargli una seria. O almeno sana di mente.

E pareva che funzionasse: non si distraeva, ma anzi sembrava quasi ipnotizzato dalle mie parole e sono riuscita a non perdere mai il contatto visivo. 

"Caspita che dialettica brillante sto sfoggiando. 
Non si stanno neanche manifestando sfoghi cutanei improvvisi. 
Sono fiera di me".

Alla fine del mio discorso, molto soddisfatta per l'attenzione che il professore mi aveva dedicato per quei dieci abbondantissimi minuti, sono andata in bagno a sciacquare via la stanchezza dalle mani e dal viso.

Mi sentivo così luminosa e scintillante. Quasi onnipotente, direi.

Ed è stato allora che ho visto.

Orrore. Raccapriccio. Paralisi.

"Specchio specchio delle mie brame ti prego dimmi che quella non sono io. 
Ti prego".

Quattro baffi di inchiostro blu fosforescente che a partire dalla fronte e passando da naso e guance arrivavano al mento.


Il professore non era colpito dalla mia dialettica.

domenica 7 settembre 2014

weekend con la psicopatica


Ci sono tre momenti che mi fanno raggiungere vette inesplorate di insopportabilità:

- periodo premestruale

- periodo pre-esame

- periodo di sonno notturno smarrito a causa di duenne turbolenta.


Bene.

In questi giorni si sta verificando un evento che l'umanità non è pronta ad affrontare: i tre periodi coincidono.

Tipo che dovrebbero costruirmi un recinto tutto intorno e dichiararmi specie protetta.

Nei rari momenti di lucidità mentale provo una fitta al cuore per chi è costretto a frequentarmi. 

Ieri sera, dopo una giornata lavorativa di dieci ore circa, Lui pensava di correre a casa per il meritato riposo ed invece il suolo di casa manco è riuscito a sfiorarlo, perché gli è arrivato un mio messaggio con la lista della spesa last minute. 
"Per un valido motivo" gli ho detto.
"Stasera preparo una cena dal sapore orientale come piace a te".

La lista conteneva elementi quali: 
un uovo di condor appena colto con il condor presente, 
due zucchine striate di verde chiaro tendente al giallo rafforzate da qualche improvviso intercalare di verde più intenso, 
una carota raccolta durante il tramonto di un giorno umido ma non troppo, 
riso proveniente direttamente da colture giapponesi vicine alla fattoria di quel tizio innamorato da anni della ragazza che ogni giorno vede al mercato del pesce, ma ancora non si è dichiarato. E così via.

Cose indispensabili e facilmente reperibili, mi sembrava.

E invece è tornato a casa e non c'era un ingrediente che corrispondesse a ciò che avevo tanto dettagliatamente chiesto.

Ho avuto una lievissima crisi isterica e la cena è anche venuta uno schifo.


Oggi, invece, ho dovuto studiare tutto il giorno e questo era il gruppo di supporto al mio studio:




Narcolettici per necessità, non per scelta. 



mercoledì 3 settembre 2014

la provvista per l'inverno


Il mare siamo riuscite a vederlo solo pochi giorni.
Ma non importa, sai. Ne vale comunque la pena.

Quando torni verso casa e senti la sabbia che scricchiola sotto i piedi e quell'odore di sale che brilla in mezzo ai capelli e pervade tutto, tutto.

Non so se esista un odore più buono, forse il tuo.

Anche solo per quel momento, ne vale la pena. 
Ne vale la pena sempre, con il mare.

Di tempo, alla fine, ne basta poco per respirare l'azzurro e incollarselo addosso.
Per essere proprio sicuri che aderisca bene, basterà fare una capriola colorata.
Ma questo lo sai già, me l'hai insegnato tu.








Al nostro rientro, io dovevo lavorare per una settimana dalla mattina alla sera.


(Vantaggi di un contratto a chiamata:

"Ehm, io ad Agosto non ho nessuno che riesca a stare con la bimba, non riesco a lavorare"

"Non c'è problema, però avrei bisogno che tu venissi in negozio per una settimana intera a Luglio."

E, alla fine, mi hanno anche richiamata per Settembre. 
Che mica era così scontato. )


E tu sei stata con la nonna. 
Era la prima volta che non ti vedevo per sei giorni di fila. 

La mattina mi alzavo, facevo colazione, andavo in negozio.
Una quotidianità di piccole cose, tranquille, senza fretta. 
Sembrava di essere balzati indietro nel tempo.
Non stavo male, eh. Anzi. 
Ero piena di una calma bella, che quasi stordisce. 

Eppure.
C'era un vuoto che si alzava con me e mi teneva per mano.
Un vuoto fatto di risate e occhi blu. Che in alcuni momenti mi faceva male alla pancia. 

Poi Agosto è arrivato, ed io non lo amo. Non molto, almeno.

Quando da ragazzina abitavo al mare, ad Agosto partivamo sempre per la montagna e, proprio durante quel mese, al mio gruppo di amici al mare accadevano le cose più straordinarie. 
Mirabolanti avventure, amori nati davanti ad un tramonto sicuramente più rosa, giallo e azzurro di qualsiasi altro tramonto di qualsiasi altro mese.
Ed io mi perdevo tutto.
Agosto era un tizio antipatico (sicuramente adolescente) che nascondeva il foglio con mani sporche d'inchiostro, per non farmi vedere.

Ma questo Agosto eravamo tu ed io, e credimi se ti dico che è stato bellissimo.

Di quella bellezza che ha solo il tempo quando non devi contarlo ed entra dalla finestra lasciata socchiusa, si arrampica in ogni angolo della stanza e diventa pane e marmellata di mirtilli, e giochi che nascono da una scatola di carta.
E diventa il compleanno di un pupazzo amato e vecchio come me 
da festeggiare con una serietà che mi fa sorridere.
E favole che ti portano via, e ricordatelo sempre di farti portare via, ogni tanto.
E diventa "mamma, mi fai le cocche?" mentre fuori piove un po', ma in fondo che importa. 






Tanto poi il sole torna e si infila in mezzo agli alberi e ai pensieri. 








Ogni anno acchiappo uno dei suoi raggi e me lo nascondo nelle tasche, come provvista per l'inverno. Che sarà lungo e faticoso.

Quest'anno il mio raggio è la tua voce che canticchia "vita bella, bella vita" che io ancora non ho capito da chi hai imparato a dirlo.

E' quella bolla di sapone che insegui correndo forte nel prato.

Sei tu.







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