domenica 24 febbraio 2013

cinque fiocchi di neve


Il silenzio. 
Così fitto che sembra di toccarlo. 
E ti chiedi dove si nasconda, tutti gli altri giorni. 
E pensi che ci vorrebbe un angolo di silenzio, ogni giorno. 
Per svuotarci dentro i pensieri e tappare loro la bocca, anche solo per un istante. 
Per sentire meglio il battito di un cuore o il respiro che entra e poi esce. 

Il bianco.
Che si posa sui colori, per farli riposare.
Che abbraccia le case, le strade ed anche me.
Che fa socchiudere gli occhi di chi lo guarda perché i suoi, di occhi, brillano troppo.

Il cambio di programma.
E scoprire che non sempre è un male togliersi la cintura dell'organizzazione e accogliere l'imprevisto.

Il calore umano.
Quello del vicino con cui non hai parlato mai e adesso prende una pala in mano e ti aiuta a spalare.
Quello di chi ha la macchina parcheggiata accanto alla tua e, mentre la pulisce, ti racconta la sua giornata.
E chissà, poi, perché ci si ricorda solo in questi casi quanto sia bello incontrare il viso e le parole di chi non si conosce. 

La bellezza.
Della ragazza con un fiore fra i capelli che camminava a faccia in su e rideva.
E sembrava una primavera innamorata dell'inverno.
Di un albero che, appesantito, abbassa le sue lunghe dita fra cui nasconde una carezza.
Di rami che erano nudi e ora indossano un sorriso bianco.
Di bambini che giocano fra quei sorrisi, fra quelle carezze.
E, forse, niente è più bello di un bambino che gioca.

venerdì 22 febbraio 2013

il mattino ha il termometro in bocca


Mi sono alzata con la regione ovest dei capelli che aveva deciso di conoscere meglio la regione est. 
Allora nord e sud, per non sentirsi tagliati fuori, hanno pensato di partecipare anche loro. 
E così dopo danze e festeggiamenti, si sa come finiscono queste cose, hanno generato tutti un dolce nodo paffutello. 
E fu così che i miei capelli diventarono un asilo nido per nodi. 

Gli occhi socchiusi di chi non ha dormito neanche un minuto per tutta la notte. Socchiusi, perché è già mattina e non ci credono nemmeno loro.

Una bambina in braccio, con naso colante e occhi lucidi come giustificazione evidente della ore indimenticabili appena trascorse.

Ho guardato il divano e mi sono presa un colpo.

All'inizio ho pensato fosse un ladro. 
Un ladro un po' sprovveduto che, una volta classificati i pannolini come oggetto più costoso, si era addormentato di noia.

Poi ho guardato meglio e creduto con orrore che fosse un qualche animale morto recapitato generosamente dal gatto come trofeo.

Ma, successivamente, un rantolo inquietante si è sollevato da quel groviglio di coperte ammassate sul divano. 
E ho riconosciuto la sua voce.

"Ma non eri a lavoro?"

"Sodo malado." 

Da quel momento, le cose sono precipitate. 

La piccola malata, Lui malato, chiazze di vomito di gatto per tutta la casa, la bufera di neve. 
E il sonno che mi graffiava la faccia con unghie piuttosto affilate.

Ah, e nessuna medicina in casa. Ovviamente. 
Chi tiene medicinali in casa d'inverno?

Sono quindi dovuta uscire sotto la tormenta, in pigiama, condita di vomito felino e muco infantile, portandomi anche la piccina appresso. 
L'alternativa era lasciarla al padre in preda a delirio febbrile. 
Tipo che se lei avesse deciso di bersi a collo tutti i detersivi presenti in casa per dimenticare le sue disgrazie, Lui non se ne sarebbe neanche accorto. 
Anzi, probabilmente avrebbe brindato alla sua salute.

Una volta rientrata mi sono divisa freneticamente, tutto il giorno, fra Lui che stava compilando le ultime volontà e lei che si era trasformata in una scimmia urlatrice. 
E un gatto che aveva deciso di istituire oggi come giorno del "liberiamo lo stomaco da tutto ciò che ho mangiato in questi ultimi tre anni".

Il tutto pervaso dall'ansia che intratteneva una fitta conversazione con la mia pancia. 
E le raccontava di come fosse accogliente la sua nuova dimora a forma di impotenza che si prova davanti a due occhi bambini lucidi di febbre.

Per cui ora mi ritrovo qui, seduta per la prima volta da quando mi sono alzata stamattina, a scrivere per disturbare le chiacchiere dell'ansia, con lo stesso pigiama color vomito e muco, con il sonno che mi sta appoggiato sulla testa.

E son seduta qui perché ci ho provato ad andare a letto, certo che ci ho provato. 

Ma al sedicesimo risveglio da urla disperate con relativa passeggiata e canzoncina, ho deciso che sul divano ci stavo meglio.

E poi, mi sa pure che ho mal di gola.

lunedì 18 febbraio 2013

il fiore giallo


Ci sono giorni così.

Il tempo striscia via, sotto la porta. 
E quando mi giro a cercarlo è già buio.

La solitudine si arrampica sui muri di una casa troppo piccola. 
E mi fissa, mentre tento di cacciarla con mani stanche.

La pappa preparata una volta e sputata per terra. 
Preparata un'altra volta, in modo diverso, sputata in faccia.
Provarci di nuovo, con latte e biscotti. Urla che spaccano i vetri e sputo relativo.
Non demordere e continuare, dopo un'ora, con pera e biscotti e poi mela e pera. Sputo a fontana, manco a dirlo.

Ritrovarmi a mangiare tutto io e in modo abbastanza compulsivo, pure. 
La pappa, il latte, la pera, la mela, i biscotti. 
E anche i pianti, per non sentirli più.

Nel frattempo, guardare il mio proposito di cominciare la dieta prendere a braccetto la mia forza di volontà e allontanarsi mentre ridacchiano. Di me. 
Ma che vi ridete, dico io. 


E poi, ci sono altri giorni.

Giorni in cui mi alzo la mattina con una bimba che mi chiama mamma e, appena uscita dalla camera, mi indica la radio cominciando a sculettare e dare colpi di bacino che io neanche a diciott'anni. 
Non per niente mi chiamavano ciocco di legno.

Cominciare la giornata ballando, dovrebbero istituirla come legge categorica e universale.

Il sole che bussa alle finestre e ci invita ad uscire. 

Abbiamo sorpreso il parco che non si aspettava visite, in un lunedì mattina d'inverno. 
Era persino svestito e con baffi di neve sul viso ancora addormentato. 



quasigiovane


Ma poi si è truccato in fretta, con qualche raggio di sole e un po' di verde che, in mezzo ai rami nudi, sembra una promessa.




Non c'era quasi nessuno, se non qualche coraggioso che correva con tutta la mia stima. 
Ah! E un amico fidato, naturalmente.





Anche gli alberi volevano partecipare al nostro strano circolo, e allungavano l'ombra per sentire meglio.



Abbiamo visto un signore anziano camminare mentre scriveva. Sorridendo.

Chissà cosa scriveva, forse la voce segreta della primavera.

La primavera che spunta in mezzo alla neve.





Anche questa giornata ora mi sembra un fiore giallo, accarezzato per la prima volta dal sole e da dita piccoline. 

Questo ho pensato mentre, tornate a casa, Lei gattonava spargendo la primavera ovunque.



sabato 16 febbraio 2013

un amore


C'era una volta il mare.

E il mare, un tempo, era grigio.

Pochi lo sanno, perché è un segreto che tiene rapito nei suoi abissi, celato agli occhi di chi non sa vedere.

Il mare era rimasto a guardare le creature del mondo vestirsi dei colori più belli, senza saperne scegliere uno per dipingere la sua immensità.

Così, lentamente, il desiderio di colore si spense, tingendolo di grigio. 
Grigio nostalgia.

Nonostante questo, continuava il suo lavoro e, ogni giorno, dava nutrimento ai pesci e li amava, come si amano i propri figli, e andava incontro alle rocce e le avvolgeva, definendo forme e profumi.
Cullava le barche, accompagnando alcune verso l'amata casa e altre verso viaggi senza meta.

Era maestoso e ammirato, niente spezzava la sua forza.
Ma era grigio e, poiché il grigio ha sempre fame di colore, tutti avevano paura di lui. 
Temevano di essere cancellati.

Con il tempo, il grigio si mangiò anche la nostalgia e il mare chiuse gli occhi, lasciandosi scivolare avanti e indietro.

Un giorno, sentì una nuova forma d'acqua sfiorare la sua superficie.
Acqua che non conosceva, che non gli apparteneva.
Capì che arrivava  dall'alto, dove lui non aveva mai guardato. 
In realtà, non aveva mai neanche pensato che potesse esserci qualcosa sopra di lui.

La curiosità, con mani abili, aprì i suoi occhi e per la prima volta il mare guardò in su.
Vide la marcia disordinata di mille gocce e allora chiese:

"cosa siete?"

"siamo pioggia, lacrime di cielo." Risposero.

"Cos'è il cielo?" Domandò il mare, che non ne aveva mai sentito parlare.

E mentre domandava, incrociò proprio gli occhi del cielo e le sue onde tentarono un impossibile volo, solo per raggiungere quegli occhi, solo per poterli osservare più da vicino.

Il mare si rivolse al cielo:

"perché piangi?"

La voce del cielo diventò vento:

"piango per te. Ho sentito la tua nostalgia per molto tempo e tante volte ho pianto per far scivolare giù i miei colori e donarteli.
Ma non sei più capace neanche di sentire la nostalgia e allora ho deciso che io la proverò per te. Io proverò per te tutto ciò che non sai provare."

Il mare, nella profondità del suo ventre, ascoltò la musica di una danza segreta che coinvolgeva ogni suo abitante

Il cielo gli sorrise d'azzurro, allargando il suo infinito.
Gli sorrise con un volo di gabbiani che si posarono sulla pelle del mare.

La musica degli abissi ubriacò ogni angolo degli oceani.

I gabbiani erano braccia e gambe del cielo e il mare ballò con lui, al suono di quella melodia.

Improvvisamente, il mare si fermò.

"Come puoi provare amore nel guardarmi? Io sono grigio. 
Niente in me possiede colori."

"Io sono parte di te, come puoi dire di non avere colori?" Rispose il cielo.

"Ma noi siamo così distanti, non puoi essere parte di me." 
E le sue onde grigie lasciarono volar via le ali di gabbiano.

Il cielo parlò di nuovo: 

"mio mare, quando il mondo è nato, la natura si avvolgeva su se stessa in un unico elemento e mare e cielo erano una cosa sola, indivisibile. 
Ora dimmi, se siamo stati abbracciati alla nascita del tutto, come puoi credere di essere troppo lontano da me?"

Il mare sentì un'onda nascere da quegli abissi di musica e innalzarsi con forza.
La forza di una tempesta, la forza di tutta la natura che accompagna una piccola onda che aspira al cielo.

Cresceva, cresceva sempre di più, con la ferma speranza di chi sa che sta tentando qualcosa di irraggiungibile, ma ha abbastanza amore per permettersi di provarci.

Riuscì solo a sfiorare il cielo, quel cielo che gli aveva insegnato a vedere, a danzare, ad amare.

E cadde giù.

"Cielo" disse il mare "non ci riesco, non riesco a raggiungerti."

Il cielo pianse, perché era l'unico modo per toccare l'amato mare.

La sua pioggia, allora, incontrò l'onda coraggiosa.
E tale fu l'impatto che lì, esattamente in quel punto, nacque il sole.

Esplosero i suoi raggi e precipitarono giù, come radici nel mare.
E non ci furono più parole, solo il loro eterno bacio.

Alla fine di quella luce, in lontananza, si scorgono due ombre.

Sono due ragazzi con lo stesso sorriso, gli stessi occhi. 
Al collo hanno ghirlande colorate e si tengono per mano, celebrando quel matrimonio di natura.

E proprio lì, dove finisce il bacio fra cielo e mare, inizia il loro bacio d'amore.

mercoledì 13 febbraio 2013

un-dici a me?


Fino a ieri, quando ti chiedevo:

"Chi sono io?"

Tu rispondevi con un convintissimo:

"Ga!"

Oppure con una pernacchia.

Per attirare la mia attenzione, nei momenti di bisogno, intonavi un sonoro:

"Ahooooò!" 

Da romana verace, anche se romana non sei.

Stamattina, al tuo (cinquantesimo) risveglio, le hai provate tutte per convincermi ad alzarmi: urla, tentativi di auto-soffocamento, pianto disperato, estirpazione di quei due peli che ti ritrovi in testa e poi, di nuovo, tutto da capo. 

Ma il Sonno mi sussurrava all'orecchio di posti incantevoli, dove i fiumi scorrono limpidi e gli uccellini cantano. 
Ed io proprio non ce la facevo a non ascoltarlo.

Allora tu, che da tuo padre hai ereditato anche la furbizia, quella più subdola, quella che ammalia, sei stata zitta. 
Hai lasciato che il silenzio fosse il palcoscenico della tua mossa successiva.

Ti sei arrampicata alle sbarre del lettino, mettendoti in piedi. 
Ti sei voltata nella direzione del mio corpo abbandonato alle lusinghe di Morfeo.

E, dolcemente, hai strillato:

"Mamma!"

Mamma.

Dici a me? 

No, perché mi sembra incredibile essere davvero la madre di qualcuno. 
Io, che a pensarci bene non so neanche prendermi cura di me stessa. 

Mi sembra incredibile ritrovarmi nell'abbraccio di cinque lettere a forma di culla, a forma d'amore. 

Mi sembra incredibile rinascere dalla tua voce che mi chiama.

Ho dato un pugno in un occhio al povero Sonno e sono schizzata fuori dal letto per prenderti, abbracciarti, baciarti, ballare e cantare e dipingere di rosa tutte le pareti di casa e anche il gatto.

E tu, dall'alto dei tuoi nuovi undici mesi, hai sorriso. 
Perché lo sai -eccome se lo sai- di avermi totalmente ed irrimediabilmente in pugno.


lunedì 11 febbraio 2013

un giorno intero


Mano nella mano. E in quella stretta c'è la nostra nostalgia che scivola giù dalle fessure di dita intrecciate.

Le nostre mani abbracciate sono l'unica valigia che abbiamo portato. 
Per il resto, solo un cappotto con un sorriso che spunta dalla tasca.

Camminiamo dopo aver nascosto l'orientamento sotto la necessità di perderci, di non far trovare le nostre impronte al tempo, di ritrovarci in vie sconosciute e dire:
"trasferiamoci qui."

Ci investe il Carnevale senza averlo cercato e io guardo un carro fatto di maschere e sorrisi e scopro un viso sconsolato che lotta contro le lacrime e perde la lotta, chiamando sua madre con tutto il fiato in gola. 
Sorrido di fronte a quella piccola coccinella che mi ricorda la me stessa di anni prima, che cercava di buttarsi giù dal carro stipato di principesse, sperando che la sua scopa da strega la portasse via, possibilmente in un altro universo. 

Entriamo in un posto così bello. 
Alcuni libri hanno addosso un biglietto scritto a mano con i "consigli del libraio", una parete intera è ricamata di "consigli dei lettori" nello spazio di un post-it. 
Muri di libri per tre piani e poi tavolini di legno per fermarsi e mangiare.
Voglio vivere qui dentro, penso, a leggere cibo e mangiare libri. 
Finché non sarò sazia di bellezza. Ma non si è mai sazi di bellezza.

La nostra cena, lì dentro. Odore di vino e di carta, di parole che escono dalle nostre bocche e sono leggere come un volo di farfalle. 

Usciamo per fermarci, poco dopo, in un bar. 
La piazza ha la voce di ragazzi che si incontrano, che si salutano con rituali di mani che sbattono, che si abbracciano come fratelli, che hanno vestiti corti ma non sentono il freddo. 
E noi a bere un po' di quella giovinezza, a vivere la nostra. 

Torniamo a casa, e ci accoglie un profilo di bimba addormentato. 
Vado a baciare i suoi sogni, uno ad uno. 

Un giorno intero, solo per me e per Lui. 
Un giorno intero in cui siamo adolescenti che fuggono da scuola, in un mattino di sole. 
Un giorno intero per guardarci bene negli occhi e riconoscerci.
Un giorno intero, perfetto. Perché al ritorno c'era un lettino piccolo, accanto al nostro.

giovedì 7 febbraio 2013

ha qualcosa che ricorda te


"Che bello" aveva sussurrato Lui accarezzandomi la pancia, a pochi giorni dalla nascita di nostra figlia "fra poco ci sarà con noi un piccolo essere umano che avrà negli occhi i nostri colori, uniti." 

E tutto mi sembrava molto poetico. 
Sì, perché anche se non mi sono mai amata particolarmente, mi pareva meravigliosa l'idea di riconoscere in mia figlia un naso simile a quello di Lui, accanto ad una bocca simile alla mia. 
Una sorta di testimonianza del nostro amore che lei si sarebbe portata sempre nel sorriso.

Qualche giorno dopo, quando mi posarono la piccola appena nata sulla pancia, l'ostetrica urlò, carica di entusiasmo:"Oddio, è uguale al padre!" 

Da allora, è stata tutta una declinazione di quella prima osservazione. 

Chiariamoci. 
Lei non somiglia al padre. 
E' esattamente Lui. 
Una perfetta riproduzione miniaturizzata.
Non è mia intenzione negarlo. 
E non sono per niente infastidita da questa evidente clonazione. 
Non si può essere infastiditi dagli occhi di cui ti sei innamorata anni prima, che ti guardano dal viso di tua figlia.
  
Quello che mi turba -leggermente- sono i costanti commenti esterni.


Scena uno:

La nostra vicina di casa, rivolta a me:
"Ma sei sicura che sia tua figlia? No, perché non ha davvero niente che possa ricondurre neanche minimamente a te."


Scena due.

L'erborista intona una romantica serenata di complimenti, riferiti a mia figlia e al padre che la tiene fra le braccia.

Ad un certo punto, si volta verso di me:
"Ha bisogno di qualcosa, signora?"

"No, veramente sono con loro." 

L'erborista, rivolta a Lui, con l'espressione di chi ha capito tutto:
"Ah, guardi, per un certo periodo anch'io mi portavo sempre dietro la baby-sitter. Quando sono così piccoli è difficile fare tutto da soli!"


Scena tre.

"Scusi, ma a chi somiglia questa bambina? Perché a lei no di sicuro."
Dolce vecchietta sull'autobus. Alla quale avevo appena offerto il mio posto per sedersi.


E così via. 


Ma tutto questo è niente in confronto alla di Lui affabile nonna.

Ogni e ripeto Ogni e sottolineo Ogni volta che andiamo da lei, comincia a chiamare mia figlia con il nome di Lui, per poi gongolare.

Una volta emersa con fatica dalla risata di compiacimento, si riferisce a me chiedendo (per pura curiosità scientifica): 
"Ma qualcuno dice per caso che ti somiglia? No, perché a me non sembra." 

Stessa identica frase. Tutte le volte. A ripetizione.


Fino ad oggi.


Stasera, infatti, la tenera nonnina mi ha dedicato una vigorosa pacca sulla spalla e ha proclamato con fare solenne:
"La bambina è cambiata! Forse adesso c'è qualcosa che ricorda anche te!"

Con animo trepidante, l'ho invitata a continuare.

E lei, soddisfatta:

"L'orecchio destro, mi sembra, vero?"




lunedì 4 febbraio 2013

il piccolo giubbotto


Ci sono momenti in cui il bisogno di fuggire diventa impellente.

Quando si comincia a parlare con la lavatrice, il lavandino e la finestra di casa propria, è uno di quei momenti.

Sono andata a rifugiarmi nella carezza dell'infanzia, dell'amore che ha mani antiche e conosciute. 

Avevo bisogno di sentire il profumo della torta di mia nonna, delle pareti verdi nella casa di mio zio.

Uno zio che è sempre stato incapace di parlare le emozioni. 
Anche se dentro un suo abbraccio si trovano tutte le parole che non sa dire, la sua apparente freddezza è ciò che per prima lo caratterizza. 

Uno zio che non ha mai avuto figli e nessuno conosce il vero motivo. 
Perché lui preferisce far entrare le parole in fila ordinata nella gabbia del silenzio, dentro di sé. 
E poi nascondere le chiavi. Senza buttarle, però. Che magari, un giorno, qualcuno le ritrova.

Lo stesso zio che, una sera, è tornato a casa ed io gli sono corsa incontro per salutarlo e cercare il suo abbraccio segreto.
Ma l'ho trovato fermo, all'ingresso. 
Ho seguito i suoi occhi che fissavano l'attaccapanni vestito solo del piccolo giubbotto di mia figlia, posato lì senza pensarci, perché quello era il suo posto, semplicemente. 

"Tutto bene, zio?" Ho domandato.

"Tutto bene. Solo che entrare in questa casa e vedere quel giubbotto così piccolo mi ha emozionato." 

Ed io l'ho riconosciuto mentre sorrideva, mentre le parole questa volta sembravano così semplici e nascevano dalle sue labbra come se l'avessero sempre fatto. 
Come se avesse trovato l'abito giusto per le emozioni e allora quello era il momento di farle uscire, tanto non avrebbero preso freddo.

Ho guardato quel giubbotto che io vedo sempre o forse non avevo visto mai e mi è sembrato una canzone. Di quelle belle e struggenti che danno l'impressione di essere scritte apposta per te.

Quando sono uscita da lì una macchina si è fermata accanto alla nostra, al semaforo, e dentro c'era la giovinezza senza pensieri. 
Aveva un cappello rosso e la musica in bocca. 
Ad occhi chiusi ballava sulle note della sua indipendenza appena conquistata. 

Ed io ho visto la mia faccia un po' stanca voltarsi verso mia figlia seduta sul seggiolino, accanto a me.

E tutto mi è sembrato al posto giusto, come quel piccolo giubbotto.

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